L’omicidio di una donna di 42 anni, assassinata dal marito davanti ai figli minori della coppia in un’abitazione di Andria, ha avvicinato di colpo il territorio al dramma di una recrudescenza violenta senza precedenti che attanaglia l’Italia e purtroppo non sembra placarsi. I media, in queste ultime due settimane, hanno concentrato l’attenzione su questo tipo di avvenimenti di cronaca intercettando – com’è giusto che sia – l’esigenza di maggiori informazioni da parte del pubblico. Tralasciando gli sconfinamenti nell’inopportuno e nel macabro che pure si sono verificati nel corso dell’ossessiva ricerca di dettagli nella vicenda dell’assassinio di Giulia Cecchettin, è evidente come il sistema della comunicazione abbia risposto ad un bisogno espresso dagli utenti. Capita spesso, nelle cicliche concentrazioni di notizie rispetto ad un argomento, di imbattersi in considerazioni a proposito della reale portata dei fenomeni posti sotto i riflettori. Nelle fattispecie dei casi di cronaca, per esempio, ci si può chiedere se dare “troppo” spazio al racconto possa addirittura esporre al rischio di un incremento dei comportamenti scorretti: è il classico timore dell’emulazione, un dubbio che pervade soprattutto chi fa del buon giornalismo. Stabilire un confine, una “linea immaginaria” della quantità di dati, pagine, articoli sufficienti a scongiurare un tale pericolo è veramente molto complicato. Le marce, gli appelli, le iniziative di sensibilizzazione finiscono per essere frustrati, puntualmente, dall’episodio successivo di una strage che pare non aver mai termine. Martedì pomeriggio ci siamo ritrovati a fare improvvisamente i conti con una di quelle notizie che in queste ultime tre settimane avevamo soltanto visto descrivere. Ho seguito con particolare attenzione la copertura fornita al caso Cecchettin, fin dal giorno in cui è stato lanciato l’allarme per la scomparsa, da parte dei colleghi delle emittenti televisive e dei giornali del Veneto, in particolare “Il Gazzettino” e “La tribuna di Treviso”. Ho notato il repentino cambio di paradigma dal momento nel quale sono cominciate ad emergere i sospetti su colui che ha poi confessato il delitto e più in generale una minuziosa attività di ricostruzione, fin nei particolari, del rapporto tra vittima e carnefice.
L’omicidio di Vincenza Angrisano ad Andria è maturato in un contesto differente nel quale tuttavia s’incardinano elementi riccorrenti: la banalità del male, la ferocia inaudita, la propensione ad agire violentemente con estrema facilità in situazioni di contrasto su discussioni finanche futili. Un senso di diffusa insicurezza e latente prevaricazione che penalizza le donne e ne rende sempre più difficile la vita quotidiana. Il timore dell’emulazione è frutto di quell’inevitabile constatazione sulla continua “scoperta” di nuovi crimini che i giornalisti effettuano informando ma la soluzione non è certo imporre censure, come si è sempre fatto per i casi di cronaca sotto le dittature. I mezzi di informazione fanno il loro, salvo alcuni deprecabili esempi di becero sensazionalismo: bisogna chiedersi, al netto della maggiore attenzione che ci stiamo mettendo in queste settimane e del risalto che decidiamo di dare a situazioni analoghe, quante menti vulnerabili possano sentirsi incredibilmente “affascinate” dalla possibilità di diventare i nuovi mostri da sbattere in prima pagina. Le risposte competono soprattutto al campo della psicologia.