Il fragoroso clamore mediatico suscitato dalla vicenda del pandoro (e poi delle uova pasquali) “griffate” Chiara Ferragni ha generato una marea di reazioni sui social sotto gli articoli con i quali migliaia di organi di informazione, soprattutto italiani, hanno aggiornato sugli sviluppi. Numerosi sono stati anche i pezzi di opinione, con una rilevante prevalenza di commenti antipatizzanti nei confronti della 36enne nativa di Cremona.

Questo, devo ammetterlo, potrebbe sembrare di primo impatto l’ennesimo affondo della serie ed è fondamentale, a maggior ragione, provare subito a mettere le cose in chiaro. Non ho alcuna antipatia nei confronti di Chiara Ferragni e non sono animato da alcuna avversione nei suoi riguardi. Non sono certo, al tempo stesso, il suo più convinto sostenitore e non l’ho mai seguita sui social esercitando, nel pieno rispetto verso la persona, il mio diritto a non essere interessato ai contenuti che legittimamente propone.
Sarò ancora più schietto: mi chiedo, in tutta franchezza, come possa Chiara Ferragni riuscire a convincere così tante persone a compiere acquisti in seguito ai suoi consigli e azzardando paragoni esagerati non oso immaginare quello che una “cliente” abituale di Ferragni spenderebbe se a dispensare consigli sui social ci fossero state, che ne so, Audrey Hepburn o Virna Lisi, giusto per alzare il livello sulle vette assolute…


Il tema che credo andrebbe affrontato, però, è un altro: com’è possibile che una donna divenuta così ricca sia male assistita? Mi riferisco alla natura dei contratti di cessione dei diritti di sfruttamento dell’immagine sottoscritti con Balocco e altre aziende. Da che mondo è mondo, come accade da decenni nello sport professionistico, con l’Nba apripista, quando un personaggio noto è richiesto come testimonial commerciale e l’impresa committente ha intenzione di annunciare iniziative benefiche collegate alla vendita di determinati prodotti, è buona prassi da parte dei legali della star di turno fare inserire una clausola tramite la quale l’azienda è tenuta, a fine vendita, a comunicare alcuni dati e soprattutto dimostrare l’avvenuta donazione in beneficenza. L’impressione è che tutto ciò, in uno o più casi nei quali è coinvolta Chiara Ferragni, non sia accaduto e del resto se l’influencer avesse potuto in qualche modo “inchiodare” Balocco alle proprie responsabilità lo avrebbe fatto nel video “strappalacrime” che rappresenta, al contrario, la classica toppa peggiore del buco. Insomma, l’America è ancora lontana sotto alcuni punti di vista e ritengo pazzesca, imperdonabile la leggerezza con cui quell’autentica macchina da soldi che risponde al nome di Chiara Ferragni pare essere “gestita”, dall’assistenza legale lacunosa alle masochistiche scelte di comunicazione. Il diluvio di meme seguiti a quella clip inopportuna e il fenomeno del defollowing (cioè la diminuzione del numero di fans che seguono l’imprenditrice) certificano il fallimento della strategia adottata per uscire dalla melma e sottrarsi alla gogna per quanto possibile.

Abbiamo scoperto, in pratica, che l’imprenditrice numero uno in Italia, la donna capace di costruire un impero sulla sua credibilità e sulla sua immagine, non è stata in grado di tutelare quella immagine quando sarebbe bastato esercitare il sacrosanto diritto a fornire il suo marchio in cambio (oltre che di denaro) del controllo dell’effettivo rispetto di quanto comunicato dall’azienda a proposito delle attività benefiche collegate alla vendita di un prodotto con il suo volto in bella mostra. E come può capitare a ciascuno di noi quando coinvolgiamo un amico in una cena, il tizio va via prima del tempo per non pagare il conto e ci troviamo costretti a saldare per non fare brutte figure con gli altri, ecco che Chiara Ferragni ha deciso di pagare il conto del commensale “sbadato” ma commettendo l’errore di sbandierarlo ai quattro venti facendo incazzare tutti. Un capolavoro alla rovescia. In fondo, non sono altro che racconti di grana…